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sabato 15 settembre 2012

vocabolario dialetto pannaranese



A cura di Enzo Pacca

Pannarano: dialetto e lingua italiana   (DIRITTI RISERVATI)


Vocabolario

Termine dialettale                   significato lingua italiana

a)

Abbadà                                              provvedere
Abballa                                              ballare
Abbasàtè                                            giudizioso, assennato
Abbàsce                                             giù,
abbià                                                  iniziare
abbiccià                                              accendere
abbraùte                                              rauco
abbrancà                                             arraffare
abbuscà                                              guadagnare
abbuttà                                                gonfiare
accattà                                                comprare
addore                                                profumo
addunarse                                           accorgersi
affibia                                                  appioppare, accollare
aggrascate                                           rosolato
aillà                                                     eccola
ainè                                                     si
ambrèsse                                             presto
ammassà                                             impastare
apprezzà                                             valutare
arrefònne                                             aggiungere
arrepecchiàta                                       aggrinzita
arrète                                                  dietro
arriccià                                    increspare, ondulare
arrubbà                                               rubare

b)
bazzariòte                                            discolo            

domenica 22 maggio 2011

Prefazione al libro del Prof. Albino Pagnozzi :"Pannarano il cammino della democrazia dal 1946 ad oggi." a cura del Dott. Enzo Pacca.

PANNARANO:
IL CAMMINO DELLA DEMOCRAZIA
DAL 1946 AD OGGI


Prefazione
 
C’è una storia che vorrei raccontare: un giovane maestro decide, negli anni sessanta quando nel sud Italia, la ricostruzione italiana post bellica ancora non è completata, di impegnarsi al servizio della propria comunità, del proprio paese, mosso dal desiderio di "dare", di rimboccarsi le maniche per la propria terra, diventa consigliere comunale, assessore poi sindaco, sale e scende nel consenso politico, non diventa mai "onorevole" pur avendo fatta una lunga gavetta e dato molto al suo Partito e alla sua terra, non si fa vincere dalla demotivazione, continua a svolgere il proprio ruolo perché animato da una grande passione; le sconfitte non lo fanno indietreggiare, i sogni non realizzati non lo distolgono dal proprio impegno locale. Per circa 50 anni è al servizio della comunità di Pannarano, sempre con la stessa emozione e convinzione, dovuti all’attaccamento a questa nostra terra. Questo maestro è il Prof. Albino Pagnozzi. Se c’è una morale in questa storia è che la politica è innanzitutto servizio disinteressato per la propria gente, per la propria comunità, contribuire allo sviluppo economico e sociale della propria terra, impegnarsi nella vita amministrativa. Se questo è il senso della politica che dobbiamo perseguire allora è chiaro che quello del Prof. Albino Pagnozzi è un grande insegnamento perché è rimasto al servizio della comunità di Pannarano accettando con umiltà tutti i ruoli che la sorte e gli uomini gli hanno assegnato.
Quando il Prof. Albino Pagnozzi mi parlò di questo suo lavoro, ne fui entusiasta, in quanto Sindaco di questa comunità il senso di orgoglio per ciò che diventa importante per la mia terra mi prese, perché uno scritto che ripercorre le tappe della politica e della vita amministrativa di Pannarano dal dopoguerra ad oggi, è estremamente importante per comprendere la storia della nostra comunità che come tutta la storia è fatta di eventi e di uomini.
Quando invece mi chiese di farne la prefazione ne fui contento e mi sentii onorato. Contento perché avrei contribuito anche se in modo marginale alla realizzazione di un lavoro importante; onorato perché il Prof. Albino Pagnozzi avrebbe potuto scegliere insigni esperti di storia per scrivere una prefazione, invece aveva scelto me che insigne di certo non sono.
Certo è che con questo lavoro un’altra pagina della storia di Pannarano è stata scritta. Un lavoro prezioso e come direbbero gli storici attendibile perché scritto da chi questa storia l’ha vissuta direttamente non solo come testimone ma anche come protagonista. Più prezioso ancora, perché nel leggerlo nel mentre veniamo a conoscenza dei fatti storici, cogliamo anche l’emozione, il sentimento e la commozione che la mano che lo ha scritto ci ha trasfuso dentro, in modo cosi delicato da apparire invisibile, da darci cioè la convinzione di non esserci pur facendone parte.
L’impressione che ho colto è che ha fatto il lavoro che avrebbe fatto "lo storico di professione" nel riportare gli avvenimenti, avvicinando però il lettore ad una interpretazione della storia che segue il pensiero che è proprio dell’autore: distaccato sì ma portatore di alcuni valori quali il riscatto della propria condizione, la politica quale strumento per far crescere la democrazia, il ruolo dei partiti quali protagonisti della rinascita dell’Italia e delle nostre comunità, l’alto valore morale degli uomini impegnati nella competizione amministrativa fatta con passione politica e al servizio della propria comunità e dei partiti nei quali con rispetto e obbedienza militavano.
Al prof. Albino Pagnozzi va dato atto che con questo libro rende omaggio a tutti gli uomini che hanno governato la nostra comunità. Anche i giovani potranno conoscere una storia che non troverebbero in nessun libro.
Il ricordo di quanti non ci sono più che attraverso la penna dell’autore smettono di essere, per quanti non li hanno conosciuti, solo nomi e cognomi, ma diventano uomini e protagonisti della nostra storia, portatori di idee e anche lustro per la nostra comunità, è qualcosa di estremamente prezioso.
L’autore lo descrive in modo distaccato ma è come se descrivesse se stesso attraverso la storia di altri perché ripercorrere, come in questo libro fa, i giorni amari e difficili del dopoguerra, attraverso due galantuomini, con ideologie diverse ma con gli stessi sentimenti di amore verso il proprio paese ed i propri concittadini che si rimboccano le maniche per organizzare la vita politica e sociale quali sono ANNIBALE GENOVESE per il P.L.I. ed EUGENIO D’ALESSIO per la D.C., ci rievoca il suo impegno per questa Comunità.
Altro elemento importante che si coglie in questo lavoro, che ci può essere di insegnamento, è che la competizione politica-amministrativa locale non era fine a se stessa ma in sintonia con la politica nazionale, laddove gli ideali i valori erano gli stessi. Aver inserito la descrizione di uomini e avvenimenti locali nel cammino storico che dal dopoguerra ha intrapreso l’Italia è una scelta importante che l’autore volutamente ha fatto, affinché si possa cogliere oggi, che agiamo in un mondo globalizzato, che una piccola comunità è comunque parte di un contesto più ampio quale appunto è una Nazione e il suo cammino.
Pensare che possa esserci politica amministrativa o nazionale senza il ruolo e la presenza importante e democratica dei partiti è un grande errore. Credo che con questo suo lavoro il Prof. Albino Pagnozzi abbia voluto darci un altro importante messaggio: senza la presenza di partiti organizzati e promotori della vita sociale e politica la democrazia si indebolisce.
 
Il Sindaco
(dott. Enzo Pacca)

domenica 15 maggio 2011

storia del vino da Noè ai giornio nostri

domenica 15 maggio 2011

Il vino: la sua storia, da Noè ai giorni nostri.....

Noè ....piantò una vigna...e i poeti di tutti i tempi hanno cantato il vino. Orazio cantò: " O Varo, non pianterai nessun albero, prima della sacra vite!"
Tremila nni avanti Cristo gli egiziani  incominciarono a costruire i primi recipienti d'argilla nei quali si incominciò a conservare il vino, ciò consentì il commercio.
A Roma Bacco era il dio protettore della vita e dell'uva. Al dio Bacco veniva sacrificato il capro il cui morso era dannoso per la vite.
I Greci che amavano il vino portarono piante di viti in provenza, insegnarono ai Galli tutte le cure di cui ha bisogno la vite.......
Durante le conquiste romane l'arte del vignaiolo si diffuse in tutte le province della Gallia, in particolare nella Champagne e Bordeaux e nella Borgogna.
Per consentire la vendita dei vini italiani Domiziano nel 92 ordinò la distruzione delle vigne della Gallia.
I Galli riuscirono ugualmente a salvare i loro vini nascondendolo in barilotti cerchiati di ferro, inventati proprio in questa occasione. L'editto di Domiziano fu annullato nel 281.
Con l'avvento di Carlo Magno i vigneti rifiorirono.
Nel 1290 si fabbricarono le prime bottiglie......
nel 1668, un umile frate, don Pèrignon, scoprì il momento in cui arrestare la fermentazione e nacque lo Champagne.
Napoleone gustave i vini della Borgogna. A S. Elena L'Imperatore lotterà con il suo medico fino agli ultimi giorni per bere un pò di vino.
Il vino si è mescolato nella vita dei popoli e dei principi che l'hanno considerato sempre un dono prezioso.

In tanti l'hanno decantato e proverbi.......:

Se d'acqua avaro è il gennaio si fa ricco il vinaio.

Marzo caldo e secco riempie di vino ogni secchio.

Se tuona in aprile prepara il barile.

Se Venerdì Santo è gelato gela il grano e il pergolato.

Quando l'uva nasce di maggio bisogna aspettarsi il peggio.

Se a giugno fa bel tempo prepara il tino a cuor contento.

Per Santa Maddalena la noce è piena
il grappolo è maturo e il grano è duro.

Agosto piovoso settembre vinoso.

Quando in settembre tuona la vendemmia è buona.

domenica 3 aprile 2011

unità d'italia

2 aprile 2011

Intervento 150 anni di unità d’Italia:  bozza non corretta

APPUNTI  VARI.
La storia del Risorgimento è bellissima, sembra una grande opera nella quale non manca nessuna scena: amore e morte, sangue e nobildonne, tradimenti e intrighi, battaglie e rivolte, re e imperatori, papi e cortigiane, l’esilio e il ritorno, ecc. Una trama reale che vale la pena di leggere e approfondire, oltre che per il fatto di essere la nostra storia, di rappresentare ciò che ci ha unito al veneto, al lombardo,ecc. Ovviamente ci sono anche cose meno belle e tanti  eroi sconosciuti, martiri il cui nome è completamente dimenticato.
C’è un sentimento nazionale che con la sua spinta propulsiva ha determinato gli avvenimenti che hanno portato all’Unità.
Un  sentimento nazionale che è arrivato fino ai giorni nostri e che è più radicato di quanto si pensi. Il Presidente della Repubblica On. Giorgio Napolitano che ripercorrendo l’itinerario dei Mille, ha incontrato migliaia di giovani entusiasti ce lo conferma.

Non sono un esperto di storia per cui limiterò la descrizione degli avvenimenti e delle date  al minimo indispensabile.
Le conoscenze storiche sulla nascita dell’Unità Nazionale sono state poco diffuse almeno negli ultimi decenni.
Molto si è parlato di divisioni, spesso si è messo in discussione ciò che tanti a prezzo anche della loro vita hanno unito.
Le celebrazioni di questo anno stanno rimettendo al centro della cultura, della storia, della politica, l’identità degli italiani, la nostra identità.
Questo lo dobbiamo a quegli  uomini e donne per i quali l’Italia era un ideale che valeva la vita e che le ultime parole che hanno pronunciato sono state: “VIVA L’ITALIA”.
Uomini che hanno sacrificato generosamente la loro esistenza e in molti casi la loro vita, a un ideale di Stato democratico. Uomini chiusi in prigioni, condannati al carcere duro per anni,  per aver semplicemente difeso e diffuso le proprie idee (Silvio Pellico: le mie prigioni).
Idee che hanno fatto maturare  quella coscienza politica nazionale che  ha formato Il pensiero, il sentimento, l’ideale, l’idea guida di  uomini che come viene ben rappresentato nell’Inno di Mameli, non vogliono essere più calpestati e divisi.
Alcuni di questi uomini emersero tra i tanti e guidarono il processo di unificazione: Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano ed europeo; Giuseppe Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per molti un eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed in Sud America; Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado di muoversi sulla scena europea per ottenere sostegni, anche finanziari, all'espansione del Regno di Sardegna; Vittorio Emanuele II di Savoia, abile a concretizzare il contesto favorevole con la costituzione del Regno d'Italia.

Nacquero quattro progetti politici, molto diversi e in contraddizione fra loro: quello repubblicano-centralistico di Mazzini, quello repubblicano-federale di Cattaneo, quello monarchico-federale di Gioberti e quello monarchico-centralistico guidato dai Savoia.


L’antica Italia rinasce nel 1861 attraverso un percorso che parte dalla vittoria militare degli eserciti franco-piemontesi nel 1859 e dal contemporaneo progressivo sfaldarsi dei vari stati italiani che avevano legato la loro sorte alla presenza dell’Austria nella penisola e si conclude con la proclamazione di Vittorio Emanuele II re d’Italia il 17 marzo, data in cui il Parlamento  promulga l’articolo unico:  “il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re D’Italia”. Queste parole sono scritte nel documento della legge n.° 4671 del Regno di Sardegna e valgono come proclamazione ufficiale del regno d’Italia. Il 21 aprile 1861 quella legge diventa la n. 1 di quel Regno d’Italia che cessò di esistere nel 1946 quando con il referendum gli italiani scelsero la repubblica.

Da un punto di vista politico e amministrativo non tutto è condivisibile di come si è costruita l’Italia unita. Non dimentichiamo che Cavour pensava in francese, parlava male l’italiano, il suo pensiero forse era quello di ingrandire il regno sabaudo e non di unificare l’antica Italia.
Il regno d’Italia venne configurandosi come un ingrandimento del Regno di Sardegna e ciò comportò quella che viene chiamata la piemontesizzazione del Paese che diede alla giovane nazione  un’assetto amministrativo fortemente accentrato.

Appare evidente che nel 1861 l’Italia  non era ancora fatta, anche se era stato proclamato il Regno. Sfumato il sogno federalista di Cavour, il sogno unitario di Mazzini e Garibaldi tardava a realizzarsi. Per tutto il decennio successivo il neonato Regno D’Italia, privato della lucida guida del tessitore, morto anzitempo, fu affidato a uomini che non erano all’altezza del grande statista.
Invece di attuare l’ampio decentramento da lui auspicato, si preferì rinviarlo “provvisoriamente” e “piemontizzare” il paese trasferendo pari pari lo Statuto Albertino del vecchio regno di Sardegna, nelle regioni annesse.


La morte di Cavour e la proclamazione del Regno d'Italia chiudevano il periodo storico del Risorgimento e ne aprivano un altro meno esaltante ma certamente difficile e decisivo; finito il tempo degli eroismi, bisognava costruire un nuovo stato, affrontare e risolvere una lunga serie di gravi problemi organizzativi, tra i quali quelli relativi alla scuola, ai tribunali, alle vie di comunicazione, ai pubblici uffici, alle tasse e così via.
                                    Le questioni politiche sulle quali fu  impegnato il nuovo Stato  all’indomani del 1861 in particolare furono:

Politica estera
-occupazione di Roma
-occupazione di Venezia
-difficili rapporti con le grandi potenze
-tensione con la Chiesa e lo Stato pontificio
-Austria desiderosa di rivincita
- Gelosia della Francia



Politica interna
-necessità di opere pubbliche
-analfabetismo
-arretratezza dell'agricoltura e dell'industria
-deficit del Bilancio statale
-riorganizzazione dell'esercito
- brigantaggio
Con l’Unità nasce anche il problema dei problemi, dell’ Italia:  la questione meridionale

I primi anni di vita dello stato unitario furono per il Mezzogiorno continentale anni di violente, disperate insurrezioni contadine e di una lunga e sanguinosa guerra per bande nelle campagne. Le classi dirigenti definirono subito tutto ciò, sprezzantemente, "brigantaggio" e insistettero sullo stimolo e sul sostegno che ai "briganti" venivano dalla corte pontificia e da quella borbonica in esilio. Era evidente che si voleva così confermare presso l'opinione pubblica internazionale ed europea la tesi che si trattasse solo di un fenomeno di criminalità comune, al quale non si poteva rispondere che con provvedimenti repressivi e che avrebbe potuto essere stroncato solo con la soluzione definitiva della questione romana.
Le insorgenze che seguirono nell’Italia meridionale  furono scambiate per mero brigantaggio da liquidare con la forza, ignorando le motivazioni sociali che le alimentavano. Né derivò una sorta di guerra civile che insanguinò per anni il paese e  che sembrò mettere in causa l’adesione delle popolazioni del Mezzogiorno al nuovo stato nazionale in quanto non si riuscì a dare risposte ai problemi sociali dei contadini poveri.
Guerriglie e rivolte assunsero però proporzioni tali da mettere a dura prova il nuovo stato: l'influenza borbonica sul brigantaggio e sui fatti, che esso ebbe a determinare, fu comunque di scarso rilievo e limitata nel tempo. I contadini passarono all'azione provati soprattutto dalla loro estrema miseria, dalla delusione provata dopo l'arrivo di Garibaldi, da concrete, anche se spesso confuse, rivendicazioni sulla terra. In quella situazione di grande arretratezza economica e sociale i contadini non potevano che dare alla loro lotta e alla loro protesta la forma della rivolta anarchica e violenta, della guerriglia o, quanto meno, dell'appoggio all'attività delle bande. 
Il loro odio si rivolse innanzitutto contro i proprietari e contro i "liberali" che, spesso a ragione, identificavano con i primi; poi contro i "piemontesi", che della proprietà e dei proprietari apparivano i difensori.
Contro i "briganti" il governo scatenò una repressione feroce. Ai delitti brutali commessi nel corso delle rivolte rispose con rappresaglie atroci, alla guerriglia con esecuzioni sommarie. Le garanzie statutarie furono di fatto sospese proprio su quella parte della nazione alla quale erano state da poco estese e per le popolazioni meridionali lo Stato significò solo tribunali militari, leggi speciali, prigione, stato di assedio permanente.
Fu una "guerra" spietata - la prima dell'esercito italiano, e fu una guerra civile - fatta, più che di battaglie, di agguati e selvaggi combattimenti corpo a corpo, di stragi, di reati comuni e di vandalismi connessi da ambedue le parti. Infuriò tra l'autunno del 1860 e la fine del 1864, ma continuò, se pur in forme meno violente, fino agli inizi del 1870. Impegnò contro migliaia di "briganti" due quinti dell'esercito italiano, ingenti forze di polizia, carabinieri, guardie nazionali, corpi di volontari. Devastò l'economia di intere province, provocando la distruzione di decine di paesi e la morte di migliaia di uomini.
E’ importante dire che nel pensiero del più grande stratega e statista dell’Italia Preunitaria CAVOUR il disegno politico non era quello dell’Unità d’Italia come poi di configurò. Infatti Cavour prevedeva tre stati distinti per la penisola: un Regno D’Italia comprendente tutto il nord sotto il dominio Sabaudo, un Regno del Centro composto dal Lazio e parte dell’Umbria e della Toscana sotto il dominio di un Bonaparte e infine un Regno dell’Italia Meridionale, sotto la corona borbonica, tali progetti previsti negli accordi con Napoleone III naufragarono per l’opposizione dei Savoia, di Mazzini e Garibaldi e persino del Re Delle Due Sicilie Francesco II.
Questa visione politica di Cavour è comprensibile se pensiamo che  a metà dell’800 l’idea di un unico Stato Italiano come Patria comune era assente in Italia, tanto che, per esempio, la popolazione delle Due Sicilie chiamava forestieri gli abitanti delle altre parti d’Italia, ed i Piemontesi, quando si spostavano dal loro stato, affermavano che andavano in Italia.
Il popolo considerava Patria il proprio stato di appartenenza che alla fine del 700 erano dodici per poi diventare sette: regno di Sardegna, regno Lombardo Veneto; ducati di Parma e Modena; granducato di Toscana, stato della Chiesa e regno delle Due Sicilie. Non esisteva una lingua comune, tutti si esprimevano nel proprio dialetto.
In Piemonte si parlava, si scriveva e si pensava in Francese. I figli dei ricchi studiavano in Francia. Cavour era uno di questi e non apparteneva a quella elite colta  italiana nella quale nella prima metà dell’800 era presente e forte la convinzione dell’esistenza di un’unica nazione italiana che si faceva ascendere all’impero romano, da altri al medioevo.
L'Italia era ormai fatta, aveva raggiunto l'indipendenza e una parziale unità. Si trattava però piuttosto di una unità territoriale e non spirituale: espressione non già di tutto il popolo ma di una piccola parte di esso. L'Italia era stata unificata da gruppi di persone piuttosto ristretti (studenti e professionisti avanti a tutti), i quali non costituivano neppure l'intera classe borghese in quanto una parte di essa era rimasta pressoché indifferente ai contrasti e ai conflitti per l'unità. Pochissimi poi erano gli operai e i contadini che avevano personalmente partecipato alle lotte unitarie e possedevano una sia pur pallida idea del concetto di " nazione" e di " patria". Ecco spiegato perché D'Azeglio affermasse che l'imperativo in quel momento fosse quello di fare gli Italiani, di dare loro uno spirito civico e una coscienza nazionale.
L’ opera di costruzione dello Stato  fu influenzata dal modello francese le cui  leggi e  codici  furono introdotti in Italia  nel periodo napoleonico (1805-1814).
La dipendenza dalla  Francia fu importante nel processo di unificazione italiana, tant’è che influenzò la disputa  sul modello di stato che vide a confronto a lungo le due anime del Risorgimento Italiano: da una parte quella borghese, sempre pronta a scelte fatte da un ristretto numero di persone culturalmente ed economicamente predominanti, dall'altra quella democratica e popolare, vivacemente espressa da Mazzini e dai suoi seguaci. Rimase, alla fine, vincitrice la tendenza borghese e venne fuori, sul modello della Francia napoleonica, uno stato accentrato (piemontesizzazione) nel quale una schiera di funzionari, per lo più piemontesi, sarebbero stati distribuiti in una rete destinata a due scopi essenziali:
1.     controllare la popolazione, nel senso di garantire l'ordine pubblico e garantire il consenso;
2.     trasmettere la volontà dello stato dall'alto dei suoi vertici fino all'ultimo degli abitanti.
Il Regno d'Italia venne così suddiviso in province, il cui prefetto veniva nominato dal governo. Le province a loro volta furono suddivise in comuni con a capo un sindaco, anch'egli nominato dal governo (solo a partire dalla fine dell'800 esso sarebbe stato eletto liberamente dai consiglieri comunali e quindi, in base all'ultima riforma della legge elettorale, direttamente dagli elettori del comune). I prefetti diventarono in pratica gli arbitri della vita locale e influenzarono le elezioni appoggiando - specialmente nel sud - i candidati favorevoli al governo. Inoltre al prefetto spettava la tutela dell'ordine pubblico, la disponibilità delle forze di sicurezza, la direzione degli organismi sanitari provinciali e, più in generale, il potere decisionale in tutti i settori cruciali della vita civile, dalla scuola ai lavori pubblici. La centralizzazione significò insomma che il governo, tramite il ministro dell'Interno o dei Lavori pubblici, aveva l'ultima parola in ogni minima questione locale. Una strada o una scuola non potevano essere costruite senza il suo consenso.
   (modifica titolo V della costituzione)
La scuola rappresentò uno strumento  importante per unificare la lingua visto che l'italiano era sì la lingua ufficiale dell'Italia unita ma pochi la conoscevano, pochissimi la parlavano; ovunque prevalevano i dialetti. In dialetto poi non parlavano solo le classi popolari ma anche i ceti colti. Prima del 1860, in Piemonte si predicava in dialetto; il dialetto era d'uso nei salotti della borghesia e dell'aristocrazia milanese, a Venezia, il dialetto si affacciava e dominava perfino nelle orazioni politiche e giuridiche; anche a Napoli era d'uso normale nella corte. Il primo re d'Italia, Vittorio Emanuele, usava abitualmente il dialetto anche nelle riunioni con i suoi ministri. Gli abitanti del Piemonte non capivano i Siciliani; i Veneti non riuscivano a comprendersi con i Napoletani, i Liguri con i Calabresi. A diffondere la lingua comune contribuirono anche la burocrazia e la leva militare. Gli impiegati dello stato furono costretti, almeno in pubblico, negli uffici, ad abbandonare il dialetto di origine. Fu un processo con influenze reciproche, nuove parole entrarono nell'uso comune. Anche il servizio militare obbligatorio servì ad indebolire le tradizioni dialettali forti non solo fra i soldati analfabeti ma anche tra gli ufficiali.
Nel 1861 il Regno d’Italia si configura come una delle maggiori nazioni d’Europa, almeno a livello di popolazione e di superficie (22 milioni su una superficie di 259.320 km), ma non poteva considerarsi una grande potenza, a causa soprattutto della sua debolezza economica e politica. Le differenze economiche, sociali e culturali ereditate dal passato ostacolavano la costruzione di uno stato unitario.
In politica cominciò a diffondersi la convinzione che l’Italia Unita avrebbe potuto costituire un elemento di stabilità per l’intero continente, invece di essere terra di scontro tra potenze decise ad acquistare una posizione egemonica nell’Europa e nel mediterraneo, l’Italia unita avrebbe potuto rappresentare un efficace ostacolo alle tendenze espansionistiche della Francia e dell’impero asburgico.
Nel 1866 ( terza guerra d’Indipendenza) vengono annessi al Regno il Veneto che comprendeva anche la provincia del Friuli e Mantova. Nel  1870, con la breccia di Porta Pia, Roma venne conquistata da un gruppo di bersaglieri e divenne capitale d'Italia l'anno seguente.
Con l’inizio del 1900 si chiude un periodo che con lo statista Giovanni Giolitti diede inizio a un processo di  modernizzazione dello stato liberale, alle prime riforme di carattere sociale e ad una forte crescita economica.
Ma il 1900 è anche il secolo dei nazionalismi e delle dittature che mettono in discussione il sentimento nazionale, anche se la prima guerra mondiale vide la possibilità di completare l’unità nazionale,  con l’annessione dei territori della Dalmazia. Non a caso è stata anche denominata la quarta guerra d’Indipendenza.
In Italia va al potere il fascismo con Benito Mussolini alla fine del 1922.
In questi anni è  sempre evidente che la nuova Italia aveva messo assieme popoli diversi per storia, per la lingua parlata, per le tradizioni culturali e anche religiose. L’unificazione dello stato fu per lo più portata avanti da uomini del nord, questo comportò che la diversità di cultura, di lingua, di tradizioni, fossero etichettate come condizioni di arretratezza.
In effetti erano le condizioni di tutta l'Italia a presentasi arretrate rispetto agli stati industrializzati dell'Europa occidentale.
Nel periodo della “Costituente”, negli anni decisivi, cioè della ricostruzione, su basi repubblicane e democratiche, del nostro Stato Unitario, venne recuperata “l’eredità del Risorgimento”, dissoltasi nelle vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l’avventura totalitaria. L’idea di Nazione, il senso della Patria, attorno ai quali nella prima metà del secolo scorso gli italiani si erano divisi ideologicamente e politicamente, divennero nuovamente unificanti facendo da tessuto connettivo all’elaborazione della Carta Costituzionale.
Nella Carta che l’Assemblea costituente adottò il 22 dicembre 1947 l’espressione “una e indivisibile”, riferita alla Repubblica, appare come un vincolante impegno politico e morale. Ancora una volta l’unità nazionale era stata messa al riparo da prove durissime.
Una consapevolezza che dovrebbe oggi essere seriamente recuperata.
La scuola è il posto giusto per parlare dell’Unità d’Italia perché è il luogo privilegiato di formazione del cittadino, il luogo in cui si trasmette il senso del vincolo dell’unità nazionale.
Non si tratta di celebrare il passato ma di rilanciare l’unità in una prospettiva ben più larga perché ciò che ha rappresentato l’unità d’Italia dal punto di vista politico, sembra oggi essere messo in discussione dal quadro di un’Italia che appare in radicale divisione, da ogni punto di vista.
Ciò sembra inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861.
A 150 anni dall’unità d’Italia per la prima volta la nazione è minacciata dall’interno.
Mai l’unità era stata messa in discussione, neppure nei periodi più bui, guerra, resistenza , dittatura.
L’Italia che oggi si vorrebbe divisa, è più antica dei  150 anni che oggi ricordiamo, è nata nei versi di Dante e Petrarca ed è  diventata una nazione grazie ad eroi spesso dimenticati.
Il forte sentimento nazionale che ha reso possibile questa unificazione è ben rappresentato da uomini come i fratelli Bandiera fucilati nel Vallone di Rovito o Frabbrizio Quattrocchi giustiziato dai terroristi di Alcaida, e tantissimi altri morti al grido di  “VIVA L’ITALIA”.

bibliografia: autori vari.
                                                                           Il Sindaco
                                                                  (Dott. Enzo Pacca)

martedì 1 febbraio 2011

parsifal: Enzo Pacca EVOLUZIONE DELLA POLITICA AGRARIA E DEL...

parsifal
Enzo Pacca
EVOLUZIONE DELLA POLITICA AGRARIA E DEL...: "Enzo Pacca EVOLUZIONE DELLA POLITICA AGRARIA E DELLA ORGANIZZAZIONE DELLA SOCIETA’ RURALE Le trasformazioni nelle politiche agrarie e nell’..."