Cerca nel blog

domenica 3 aprile 2011

unità d'italia

2 aprile 2011

Intervento 150 anni di unità d’Italia:  bozza non corretta

APPUNTI  VARI.
La storia del Risorgimento è bellissima, sembra una grande opera nella quale non manca nessuna scena: amore e morte, sangue e nobildonne, tradimenti e intrighi, battaglie e rivolte, re e imperatori, papi e cortigiane, l’esilio e il ritorno, ecc. Una trama reale che vale la pena di leggere e approfondire, oltre che per il fatto di essere la nostra storia, di rappresentare ciò che ci ha unito al veneto, al lombardo,ecc. Ovviamente ci sono anche cose meno belle e tanti  eroi sconosciuti, martiri il cui nome è completamente dimenticato.
C’è un sentimento nazionale che con la sua spinta propulsiva ha determinato gli avvenimenti che hanno portato all’Unità.
Un  sentimento nazionale che è arrivato fino ai giorni nostri e che è più radicato di quanto si pensi. Il Presidente della Repubblica On. Giorgio Napolitano che ripercorrendo l’itinerario dei Mille, ha incontrato migliaia di giovani entusiasti ce lo conferma.

Non sono un esperto di storia per cui limiterò la descrizione degli avvenimenti e delle date  al minimo indispensabile.
Le conoscenze storiche sulla nascita dell’Unità Nazionale sono state poco diffuse almeno negli ultimi decenni.
Molto si è parlato di divisioni, spesso si è messo in discussione ciò che tanti a prezzo anche della loro vita hanno unito.
Le celebrazioni di questo anno stanno rimettendo al centro della cultura, della storia, della politica, l’identità degli italiani, la nostra identità.
Questo lo dobbiamo a quegli  uomini e donne per i quali l’Italia era un ideale che valeva la vita e che le ultime parole che hanno pronunciato sono state: “VIVA L’ITALIA”.
Uomini che hanno sacrificato generosamente la loro esistenza e in molti casi la loro vita, a un ideale di Stato democratico. Uomini chiusi in prigioni, condannati al carcere duro per anni,  per aver semplicemente difeso e diffuso le proprie idee (Silvio Pellico: le mie prigioni).
Idee che hanno fatto maturare  quella coscienza politica nazionale che  ha formato Il pensiero, il sentimento, l’ideale, l’idea guida di  uomini che come viene ben rappresentato nell’Inno di Mameli, non vogliono essere più calpestati e divisi.
Alcuni di questi uomini emersero tra i tanti e guidarono il processo di unificazione: Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano ed europeo; Giuseppe Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per molti un eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed in Sud America; Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado di muoversi sulla scena europea per ottenere sostegni, anche finanziari, all'espansione del Regno di Sardegna; Vittorio Emanuele II di Savoia, abile a concretizzare il contesto favorevole con la costituzione del Regno d'Italia.

Nacquero quattro progetti politici, molto diversi e in contraddizione fra loro: quello repubblicano-centralistico di Mazzini, quello repubblicano-federale di Cattaneo, quello monarchico-federale di Gioberti e quello monarchico-centralistico guidato dai Savoia.


L’antica Italia rinasce nel 1861 attraverso un percorso che parte dalla vittoria militare degli eserciti franco-piemontesi nel 1859 e dal contemporaneo progressivo sfaldarsi dei vari stati italiani che avevano legato la loro sorte alla presenza dell’Austria nella penisola e si conclude con la proclamazione di Vittorio Emanuele II re d’Italia il 17 marzo, data in cui il Parlamento  promulga l’articolo unico:  “il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re D’Italia”. Queste parole sono scritte nel documento della legge n.° 4671 del Regno di Sardegna e valgono come proclamazione ufficiale del regno d’Italia. Il 21 aprile 1861 quella legge diventa la n. 1 di quel Regno d’Italia che cessò di esistere nel 1946 quando con il referendum gli italiani scelsero la repubblica.

Da un punto di vista politico e amministrativo non tutto è condivisibile di come si è costruita l’Italia unita. Non dimentichiamo che Cavour pensava in francese, parlava male l’italiano, il suo pensiero forse era quello di ingrandire il regno sabaudo e non di unificare l’antica Italia.
Il regno d’Italia venne configurandosi come un ingrandimento del Regno di Sardegna e ciò comportò quella che viene chiamata la piemontesizzazione del Paese che diede alla giovane nazione  un’assetto amministrativo fortemente accentrato.

Appare evidente che nel 1861 l’Italia  non era ancora fatta, anche se era stato proclamato il Regno. Sfumato il sogno federalista di Cavour, il sogno unitario di Mazzini e Garibaldi tardava a realizzarsi. Per tutto il decennio successivo il neonato Regno D’Italia, privato della lucida guida del tessitore, morto anzitempo, fu affidato a uomini che non erano all’altezza del grande statista.
Invece di attuare l’ampio decentramento da lui auspicato, si preferì rinviarlo “provvisoriamente” e “piemontizzare” il paese trasferendo pari pari lo Statuto Albertino del vecchio regno di Sardegna, nelle regioni annesse.


La morte di Cavour e la proclamazione del Regno d'Italia chiudevano il periodo storico del Risorgimento e ne aprivano un altro meno esaltante ma certamente difficile e decisivo; finito il tempo degli eroismi, bisognava costruire un nuovo stato, affrontare e risolvere una lunga serie di gravi problemi organizzativi, tra i quali quelli relativi alla scuola, ai tribunali, alle vie di comunicazione, ai pubblici uffici, alle tasse e così via.
                                    Le questioni politiche sulle quali fu  impegnato il nuovo Stato  all’indomani del 1861 in particolare furono:

Politica estera
-occupazione di Roma
-occupazione di Venezia
-difficili rapporti con le grandi potenze
-tensione con la Chiesa e lo Stato pontificio
-Austria desiderosa di rivincita
- Gelosia della Francia



Politica interna
-necessità di opere pubbliche
-analfabetismo
-arretratezza dell'agricoltura e dell'industria
-deficit del Bilancio statale
-riorganizzazione dell'esercito
- brigantaggio
Con l’Unità nasce anche il problema dei problemi, dell’ Italia:  la questione meridionale

I primi anni di vita dello stato unitario furono per il Mezzogiorno continentale anni di violente, disperate insurrezioni contadine e di una lunga e sanguinosa guerra per bande nelle campagne. Le classi dirigenti definirono subito tutto ciò, sprezzantemente, "brigantaggio" e insistettero sullo stimolo e sul sostegno che ai "briganti" venivano dalla corte pontificia e da quella borbonica in esilio. Era evidente che si voleva così confermare presso l'opinione pubblica internazionale ed europea la tesi che si trattasse solo di un fenomeno di criminalità comune, al quale non si poteva rispondere che con provvedimenti repressivi e che avrebbe potuto essere stroncato solo con la soluzione definitiva della questione romana.
Le insorgenze che seguirono nell’Italia meridionale  furono scambiate per mero brigantaggio da liquidare con la forza, ignorando le motivazioni sociali che le alimentavano. Né derivò una sorta di guerra civile che insanguinò per anni il paese e  che sembrò mettere in causa l’adesione delle popolazioni del Mezzogiorno al nuovo stato nazionale in quanto non si riuscì a dare risposte ai problemi sociali dei contadini poveri.
Guerriglie e rivolte assunsero però proporzioni tali da mettere a dura prova il nuovo stato: l'influenza borbonica sul brigantaggio e sui fatti, che esso ebbe a determinare, fu comunque di scarso rilievo e limitata nel tempo. I contadini passarono all'azione provati soprattutto dalla loro estrema miseria, dalla delusione provata dopo l'arrivo di Garibaldi, da concrete, anche se spesso confuse, rivendicazioni sulla terra. In quella situazione di grande arretratezza economica e sociale i contadini non potevano che dare alla loro lotta e alla loro protesta la forma della rivolta anarchica e violenta, della guerriglia o, quanto meno, dell'appoggio all'attività delle bande. 
Il loro odio si rivolse innanzitutto contro i proprietari e contro i "liberali" che, spesso a ragione, identificavano con i primi; poi contro i "piemontesi", che della proprietà e dei proprietari apparivano i difensori.
Contro i "briganti" il governo scatenò una repressione feroce. Ai delitti brutali commessi nel corso delle rivolte rispose con rappresaglie atroci, alla guerriglia con esecuzioni sommarie. Le garanzie statutarie furono di fatto sospese proprio su quella parte della nazione alla quale erano state da poco estese e per le popolazioni meridionali lo Stato significò solo tribunali militari, leggi speciali, prigione, stato di assedio permanente.
Fu una "guerra" spietata - la prima dell'esercito italiano, e fu una guerra civile - fatta, più che di battaglie, di agguati e selvaggi combattimenti corpo a corpo, di stragi, di reati comuni e di vandalismi connessi da ambedue le parti. Infuriò tra l'autunno del 1860 e la fine del 1864, ma continuò, se pur in forme meno violente, fino agli inizi del 1870. Impegnò contro migliaia di "briganti" due quinti dell'esercito italiano, ingenti forze di polizia, carabinieri, guardie nazionali, corpi di volontari. Devastò l'economia di intere province, provocando la distruzione di decine di paesi e la morte di migliaia di uomini.
E’ importante dire che nel pensiero del più grande stratega e statista dell’Italia Preunitaria CAVOUR il disegno politico non era quello dell’Unità d’Italia come poi di configurò. Infatti Cavour prevedeva tre stati distinti per la penisola: un Regno D’Italia comprendente tutto il nord sotto il dominio Sabaudo, un Regno del Centro composto dal Lazio e parte dell’Umbria e della Toscana sotto il dominio di un Bonaparte e infine un Regno dell’Italia Meridionale, sotto la corona borbonica, tali progetti previsti negli accordi con Napoleone III naufragarono per l’opposizione dei Savoia, di Mazzini e Garibaldi e persino del Re Delle Due Sicilie Francesco II.
Questa visione politica di Cavour è comprensibile se pensiamo che  a metà dell’800 l’idea di un unico Stato Italiano come Patria comune era assente in Italia, tanto che, per esempio, la popolazione delle Due Sicilie chiamava forestieri gli abitanti delle altre parti d’Italia, ed i Piemontesi, quando si spostavano dal loro stato, affermavano che andavano in Italia.
Il popolo considerava Patria il proprio stato di appartenenza che alla fine del 700 erano dodici per poi diventare sette: regno di Sardegna, regno Lombardo Veneto; ducati di Parma e Modena; granducato di Toscana, stato della Chiesa e regno delle Due Sicilie. Non esisteva una lingua comune, tutti si esprimevano nel proprio dialetto.
In Piemonte si parlava, si scriveva e si pensava in Francese. I figli dei ricchi studiavano in Francia. Cavour era uno di questi e non apparteneva a quella elite colta  italiana nella quale nella prima metà dell’800 era presente e forte la convinzione dell’esistenza di un’unica nazione italiana che si faceva ascendere all’impero romano, da altri al medioevo.
L'Italia era ormai fatta, aveva raggiunto l'indipendenza e una parziale unità. Si trattava però piuttosto di una unità territoriale e non spirituale: espressione non già di tutto il popolo ma di una piccola parte di esso. L'Italia era stata unificata da gruppi di persone piuttosto ristretti (studenti e professionisti avanti a tutti), i quali non costituivano neppure l'intera classe borghese in quanto una parte di essa era rimasta pressoché indifferente ai contrasti e ai conflitti per l'unità. Pochissimi poi erano gli operai e i contadini che avevano personalmente partecipato alle lotte unitarie e possedevano una sia pur pallida idea del concetto di " nazione" e di " patria". Ecco spiegato perché D'Azeglio affermasse che l'imperativo in quel momento fosse quello di fare gli Italiani, di dare loro uno spirito civico e una coscienza nazionale.
L’ opera di costruzione dello Stato  fu influenzata dal modello francese le cui  leggi e  codici  furono introdotti in Italia  nel periodo napoleonico (1805-1814).
La dipendenza dalla  Francia fu importante nel processo di unificazione italiana, tant’è che influenzò la disputa  sul modello di stato che vide a confronto a lungo le due anime del Risorgimento Italiano: da una parte quella borghese, sempre pronta a scelte fatte da un ristretto numero di persone culturalmente ed economicamente predominanti, dall'altra quella democratica e popolare, vivacemente espressa da Mazzini e dai suoi seguaci. Rimase, alla fine, vincitrice la tendenza borghese e venne fuori, sul modello della Francia napoleonica, uno stato accentrato (piemontesizzazione) nel quale una schiera di funzionari, per lo più piemontesi, sarebbero stati distribuiti in una rete destinata a due scopi essenziali:
1.     controllare la popolazione, nel senso di garantire l'ordine pubblico e garantire il consenso;
2.     trasmettere la volontà dello stato dall'alto dei suoi vertici fino all'ultimo degli abitanti.
Il Regno d'Italia venne così suddiviso in province, il cui prefetto veniva nominato dal governo. Le province a loro volta furono suddivise in comuni con a capo un sindaco, anch'egli nominato dal governo (solo a partire dalla fine dell'800 esso sarebbe stato eletto liberamente dai consiglieri comunali e quindi, in base all'ultima riforma della legge elettorale, direttamente dagli elettori del comune). I prefetti diventarono in pratica gli arbitri della vita locale e influenzarono le elezioni appoggiando - specialmente nel sud - i candidati favorevoli al governo. Inoltre al prefetto spettava la tutela dell'ordine pubblico, la disponibilità delle forze di sicurezza, la direzione degli organismi sanitari provinciali e, più in generale, il potere decisionale in tutti i settori cruciali della vita civile, dalla scuola ai lavori pubblici. La centralizzazione significò insomma che il governo, tramite il ministro dell'Interno o dei Lavori pubblici, aveva l'ultima parola in ogni minima questione locale. Una strada o una scuola non potevano essere costruite senza il suo consenso.
   (modifica titolo V della costituzione)
La scuola rappresentò uno strumento  importante per unificare la lingua visto che l'italiano era sì la lingua ufficiale dell'Italia unita ma pochi la conoscevano, pochissimi la parlavano; ovunque prevalevano i dialetti. In dialetto poi non parlavano solo le classi popolari ma anche i ceti colti. Prima del 1860, in Piemonte si predicava in dialetto; il dialetto era d'uso nei salotti della borghesia e dell'aristocrazia milanese, a Venezia, il dialetto si affacciava e dominava perfino nelle orazioni politiche e giuridiche; anche a Napoli era d'uso normale nella corte. Il primo re d'Italia, Vittorio Emanuele, usava abitualmente il dialetto anche nelle riunioni con i suoi ministri. Gli abitanti del Piemonte non capivano i Siciliani; i Veneti non riuscivano a comprendersi con i Napoletani, i Liguri con i Calabresi. A diffondere la lingua comune contribuirono anche la burocrazia e la leva militare. Gli impiegati dello stato furono costretti, almeno in pubblico, negli uffici, ad abbandonare il dialetto di origine. Fu un processo con influenze reciproche, nuove parole entrarono nell'uso comune. Anche il servizio militare obbligatorio servì ad indebolire le tradizioni dialettali forti non solo fra i soldati analfabeti ma anche tra gli ufficiali.
Nel 1861 il Regno d’Italia si configura come una delle maggiori nazioni d’Europa, almeno a livello di popolazione e di superficie (22 milioni su una superficie di 259.320 km), ma non poteva considerarsi una grande potenza, a causa soprattutto della sua debolezza economica e politica. Le differenze economiche, sociali e culturali ereditate dal passato ostacolavano la costruzione di uno stato unitario.
In politica cominciò a diffondersi la convinzione che l’Italia Unita avrebbe potuto costituire un elemento di stabilità per l’intero continente, invece di essere terra di scontro tra potenze decise ad acquistare una posizione egemonica nell’Europa e nel mediterraneo, l’Italia unita avrebbe potuto rappresentare un efficace ostacolo alle tendenze espansionistiche della Francia e dell’impero asburgico.
Nel 1866 ( terza guerra d’Indipendenza) vengono annessi al Regno il Veneto che comprendeva anche la provincia del Friuli e Mantova. Nel  1870, con la breccia di Porta Pia, Roma venne conquistata da un gruppo di bersaglieri e divenne capitale d'Italia l'anno seguente.
Con l’inizio del 1900 si chiude un periodo che con lo statista Giovanni Giolitti diede inizio a un processo di  modernizzazione dello stato liberale, alle prime riforme di carattere sociale e ad una forte crescita economica.
Ma il 1900 è anche il secolo dei nazionalismi e delle dittature che mettono in discussione il sentimento nazionale, anche se la prima guerra mondiale vide la possibilità di completare l’unità nazionale,  con l’annessione dei territori della Dalmazia. Non a caso è stata anche denominata la quarta guerra d’Indipendenza.
In Italia va al potere il fascismo con Benito Mussolini alla fine del 1922.
In questi anni è  sempre evidente che la nuova Italia aveva messo assieme popoli diversi per storia, per la lingua parlata, per le tradizioni culturali e anche religiose. L’unificazione dello stato fu per lo più portata avanti da uomini del nord, questo comportò che la diversità di cultura, di lingua, di tradizioni, fossero etichettate come condizioni di arretratezza.
In effetti erano le condizioni di tutta l'Italia a presentasi arretrate rispetto agli stati industrializzati dell'Europa occidentale.
Nel periodo della “Costituente”, negli anni decisivi, cioè della ricostruzione, su basi repubblicane e democratiche, del nostro Stato Unitario, venne recuperata “l’eredità del Risorgimento”, dissoltasi nelle vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l’avventura totalitaria. L’idea di Nazione, il senso della Patria, attorno ai quali nella prima metà del secolo scorso gli italiani si erano divisi ideologicamente e politicamente, divennero nuovamente unificanti facendo da tessuto connettivo all’elaborazione della Carta Costituzionale.
Nella Carta che l’Assemblea costituente adottò il 22 dicembre 1947 l’espressione “una e indivisibile”, riferita alla Repubblica, appare come un vincolante impegno politico e morale. Ancora una volta l’unità nazionale era stata messa al riparo da prove durissime.
Una consapevolezza che dovrebbe oggi essere seriamente recuperata.
La scuola è il posto giusto per parlare dell’Unità d’Italia perché è il luogo privilegiato di formazione del cittadino, il luogo in cui si trasmette il senso del vincolo dell’unità nazionale.
Non si tratta di celebrare il passato ma di rilanciare l’unità in una prospettiva ben più larga perché ciò che ha rappresentato l’unità d’Italia dal punto di vista politico, sembra oggi essere messo in discussione dal quadro di un’Italia che appare in radicale divisione, da ogni punto di vista.
Ciò sembra inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861.
A 150 anni dall’unità d’Italia per la prima volta la nazione è minacciata dall’interno.
Mai l’unità era stata messa in discussione, neppure nei periodi più bui, guerra, resistenza , dittatura.
L’Italia che oggi si vorrebbe divisa, è più antica dei  150 anni che oggi ricordiamo, è nata nei versi di Dante e Petrarca ed è  diventata una nazione grazie ad eroi spesso dimenticati.
Il forte sentimento nazionale che ha reso possibile questa unificazione è ben rappresentato da uomini come i fratelli Bandiera fucilati nel Vallone di Rovito o Frabbrizio Quattrocchi giustiziato dai terroristi di Alcaida, e tantissimi altri morti al grido di  “VIVA L’ITALIA”.

bibliografia: autori vari.
                                                                           Il Sindaco
                                                                  (Dott. Enzo Pacca)